“Non li lasciamo soli con la paura”. Il racconto di Adriana Amabili, mazarese, infermiera professionale in un Covid-Hospital della Lombardia

Redazione Prima Pagina Campobello
Redazione Prima Pagina Campobello
02 Aprile 2020 10:45
“Non li lasciamo soli con la paura”. Il racconto di Adriana Amabili, mazarese, infermiera professionale in un Covid-Hospital della Lombardia

Cari lettori in queste giornate molto complesse per le nostre vite a causa dell’emergenza Coronavirus cerchiamo quotidianamente di raccontarvi l’impegno e la professionalità di alcuni conterranei in prima linea nella protezione e cura delle persone affette da Covid-19 che si trovano ricoverate in alcune strutture sanitarie del nord e centro Italia. Sono storie di donne e uomini che non hanno perso la fiducia, anzi trovando un coraggio , spesso inaspettato nell’affrontare situazioni molto difficili credendo fermamente che questo momento così difficile possa essere superato con l’aiuto reciproco.  

Oggi vogliamo raccontarvi come trascorre queste giornate Adriana Amabili, una ragazza mazarese, residente in Lombardia da alcuni anni, che lavora come infermiera professionale in un ospedale della provincia di Pavia (in copertina una sua foto). Lo faremo attraverso la sua testimonianza che certamente riempie di orgoglio la Sicilia e la Città di Mazara del Vallo:

“Suona la sveglia, sono le 5.15, apri gli occhi, il primo pensiero:  è tutto vero?  Non è stato  un brutto incubo? Fai colazione e velocemente ti vesti, pensi ai colleghi che han fatto il turno di notte e sai bene che ti aspettano con trepidazione per togliersi tutto ‘l'imbardamento’ che dopo 10 ore non sopporti più... Sali in macchina e il tragitto che porta all’Ospedale non lo fai più come lo facevi fino a due settimane prima: la radio a volume alto, canticchiando quella canzone che ti piaceva tanto.

No,adesso la radio è spenta, sei assorta da tanti  pensieri. La paura e l'angoscia aumentano. Man mano ti avvicini al posto di lavoro! Fai le scale (mai preso l' ascensore)... Ti metti la divisa , ti ‘bardi’ ed entri in un mondo parallelo. Guardi le facce dei tuoi colleghi sperando di vedere un mezzo sorriso, sperando che la notte sia andata bene e che non ci siano state complicazioni… Niente da fare. A stento li riconosci così ‘bardati’, li saluti e ti rendi conto che ancora è troppo presto per quel mezzo sorriso.

Ascolti la consegna e poi prendi il tuo carrello della terapie e vai, comincia il tuo turno!

Passano le ore, cominci a sudare, la visiera si appanna continuamente, il tuo respiro dentro la mascherina ti dà la nausea, quella mascherina che ti stringe dappertutto, orecchie, naso,  guancia! Cominci ad avvertire qualche giramento di testa.

Oggi un paziente che da qualche giorno comincia a stare meglio mi ha chiesto "come stai? Scusami, è da giorni che sono qui e non ti ho mai chiesto come stai. Gli ho risposto che dobbiamo essere tutti forti, loro e noi e che presto ci sveglieremo da questo brutto incubo...

Si chiama Alessandro, ha 38 anni, non ha idea di come sia stato contagiato, è rimasto a casa per giorni  curandosi come se avesse un'influenza normale: antibiotici e tachipirina, dopo è  arrivata l'insufficienza respiratoria e via all'ospedale di Bergamo, infine è arrivato da noi.

Poi c'è Antonio, 65 anni, anche lui arriva da Bergamo.Durante un turno di notte lo sento tossire incessantemente, mi avvicino per chiedergli come va, se ha bisogno di qualcosa, gli tiro su lo schienale del letto, e cominciamo a parlare un pò. Mi racconta di lui e della famiglia, la moglie e le due figlie, tutti sparsi nei vari ospedali della Lombardia. Crede di essere stato contagiato durante una visita in ospedale da un medico che quel giorno gli aveva confessato di non stare bene. Antonio continua a raccontarmi delle giornate successive, di come tutti i componenti della famiglia giorno dopo giorno si sono ammalati. Ma  quando parla delle nipotine che per forza di cose sono state affidate ad un vicino di casa, non trattiene le lacrime e si lascia andare in un pianto liberatorio. Si sente impotente, colpevole e ha paura di cosa succederà.

È passata una settimana: Antonio domani verrà dimesso! Continuerà a domicilio la terapia. Anche una delle due figlie è tornata a casa. La moglie non ancora, non sta bene, non riesce a stare in piedi, è astenica e necessita ancora di cure.

E poi c'è Giovanbattista, tutto unito si scrive, ci tiene. Me lo dice con un filo di voce il giorno che fa ingresso nella mia clinica mentre compilo la sua cartella infermieristica tra le varie, solite, noiose domande anagrafiche, gli chiedo come sta, cosa si sente, che sensazioni ha. Mi descrive un respiro strano. Come se avesse della moquette piena di polvere al posto dei polmoni.

Poco dopo suona il telefono: è la figlia. Lui non ha molta voglia di parlare, quindi rispondo io. Lei piange dall'altra parte del telefono, è preoccupata, il papà è lontano da casa. Provo a tranquillizzarla: ‘ci prenderemo cura di lui’ le prometto, infine mi confida di aver abbracciato suo padre prima che fosse portato via a costo di essere contagiata, ma la paura di non rivederlo più è stata più forte di quella di contrarre questo maledetto virus. Giovanbattista mi definisce la Madonnaperché riesco a  trovargli due caramelle, dimenticate nella mia borsa, in quel momento che la sua gola sta andando in...Finendo il turno gli prometto che il giorno dopo avrebbe avuto almeno tre pacchi di caramelle.

Nel suo comodino, affianco al suo letto, adesso ci sono mille caramelle: tutte colorate, di tutti i gusti, la voce si è sparsa! Perché nonostante il timore,  perché nonostante le direttive c'impongono distanze di sicurezza e un tempo limitato nelle stanze di 15 secondi. Noi preferiamo rischiare e non lasciarli soli con la loro paura! E’ la professione infermieristica”.

Francesco Mezzapelle

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